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Le certificazioni. Un prezioso valore aggiunto

Nella nostra azienda abbiamo sempre dato molta importanza al tema delle certificazioni, anche se ci rendiamo conto che non sono così semplici da illustrare e far comprendere al consumatore finale. Sembra solo una questione per addetti ai lavori, ma in realtà non è così.
Dietro ogni prodotto ortofrutticolo c’è un sistema estremamente complesso che opera attraverso standard certificativi che si evolvono e diventano sempre più sofisticati. Tuttavia, coloro che dovrebbero essere i nostri primi alleati in questo processo di evoluzione, ossia i consumatori, ne sono assolutamente inconsapevoli.
Chi se ne occupa nella nostra azienda è Raffaella Di Donna, che segue gli aspetti legati alla Qualità e al Marketing all’interno del nostro gruppo. Lascio, quindi, a lei la parola, per cominciare ad affrontare questo tema a noi molto caro.
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Oggi sentir parlare di sostenibilità ambientale, economica e sociale, è molto facile: ne parlano sempre più spesso i quotidiani ed i consumatori sono molto più attenti rispetto al passato riguardo a queste tematiche. Non a caso la parola “sostenibilità” in ambito agricolo è anche uno dei contenuti più importanti che animeranno la prossima edizione si EXPO 2015 di Milano. E questo è certamente un bene perché noi, come agricoltori in generale, abbiamo tra le nostre responsabilità anche quella di preservare un paesaggio, linfa vitale per noi stessi, per le future generazioni e per tutti quelli che amano venire a visitare la nostra splendida regione.

All’inizio le certificazioni erano vissute dai produttori quasi come degli obblighi e basta, ma, con il passare del tempo, hanno profondamente modificato il nostro modo di lavorare, ponendo l’accento su aspetti prima trascurati come l’ambiente e le condizioni in cui operano i lavoratori, diventando una sorta di abito mentale con il quale ci confrontiamo quotidianamente. La stessa grande distribuzione, con la quale, sia in Italia che soprattutto all’estero noi lavoriamo, non solo ci richiede determinate certificazioni, ma va oltre, chiedendoci di rispettare parametri spesso ancora più stringenti delle norme vigenti.

Cosa fai per l’ambiente?
Quali precauzioni adoperi per ridurre l’impatto ambientale?
In che modo sei organizzato per far sì che i tuoi lavoratori operino nelle migliori condizioni possibili?

Queste sono solo alcune delle domande che molti nostri clienti della grande distribuzione, per esempio, ci rivolgono. E le loro verifiche, direttamente sul campo, sono molto serie e meticolose. Qui di seguito vi elenco le certificazioni dell’azienda Di Donna

  • Global Gap: è lo standard che riassume i requisiti base delle buone pratiche agricole;
  • Grasp: è l’estensione del Global Gap e si focalizza sugli aspetti sociali ed etici, quindi sul benessere dei lavoratori;
  • Brc (British Retailer Consortium) e IFS (International Food Standard): sono certificazioni standard, entrambe relative alla qualità ed alla sicurezza igienico-sanitaria dei prodotti alimentari, adottati dalla grande distribuzione europea. Anche se sovrapponibili, alcuni Stati, ad esempio l’Inghilterra, chiedono il Brc, altri, come la Germania, la certificazione IFS. Noi le abbiamo, quindi, entrambe;
  • Tesco Nurture: è uno standard privato legato all’omonima catena inglese che definisce delle buone pratiche agricole integrandole con ulteriori caratteristiche al fine di garantire l’igiene e la sicurezza degli alimenti;
  • Leaf Marque (Linking Enviroment and Farming): standard creato per promuovere la produzione integrata nelle aziende agricole con particolare attenzione all’ambiente.

A queste bisogna aggiungere i continui controlli da parte delle catene della grande distribuzione più strutturate, che si basano su questi protocolli e su quelli effettuati sui prodotti a marchio che coltiviamo secondo disciplinari specifici per alcune di loro.

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Uva da tavola e Pinterest? Perché no

Il mondo dei social network non ha più bisogno, probabilmente, di essere illustrato e spiegato a nessuno oramai. Nel mio mondo però, quello dell’uva da tavola, forse qualche passo in più si potrebbe fare. Noi, nel nostro piccolo ci stiamo provando e oltre a questo blog c’è anche la nostra pagina Facebook che vi invitiamo a visitare.
Se ci spostiamo dall’altra parte dell’Atlantico però, tanto per cambiare negli Stati Uniti, un bell’esempio sull’uso di un altro social network come Pinterest arriva anche dall’uva da tavola. Basta vedere cosa hanno fatto l’anno scorso in California. La California Table Grape Commission lanciò una pagina Pinterest molto interessante con un obiettivo: diffondere foto sull’uva da tavola californiana per condividere la passione degli amanti di questo splendido frutto, ma anche per fare conoscere varietà e ricette. Storie di uva insomma. Si trovano 17 raccolte con belle foto che mostrano i tanti usi in cucina dell’uva da tavola, ma anche foto di paesaggi e vigneti. Un bel modo per diffondere una coltura che anche in Italia ha grande tradizione e, lasciatemi essere un po’ campanilista, non ha nulla da invidiare a nessun altro paese. Potremmo anche noi, su Pinterest, mostrare paesaggi, varietà, ricette!

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Report e i brevetti

In un post di ottobre avevo cominciato a raccontare qualcosa del mondo dell’uva senza semi, consapevole che per molti consumatori, soprattutto italiani, questo vero e proprio universo appare a volte ancora misterioso. Spesso, soprattutto in Italia, quando ci si accosta all’uva da tavola senza semi molti si domandano, infatti, se dietro ci sia qualcosa di “ambiguo”. Se, in poche parole, questo frutto nasca da una manipolazione contro natura attuata dall’uomo. Per sgombrare immediatamente il campo da eventuali dubbi partiamo subito dalla risposta: no. Assolutamente no.

I breeder, vale a dire dei costitutori varietali, dopo anni di studi e ricerche scoprono nuove varietà di uva senza semi incrociando varietà già esistenti. Tutto qua. Gli oramai famigerati OGM non c’entrano nulla. Per ottenere una nuova varietà di uva senza semi i ricercatori non modificano geneticamente alcunché. È invece normale che chi ricerca e trova una nuova varietà di uva senza semi poi possa brevettarla e registrare un marchio. E, quindi, chi vuole coltivare queste varietà può dover pagare delle royalities. Di casi nel mondo dell’uva da tavola senza semi ce ne sono molti e prossimamente vi racconteremo caratteristiche e storia di molte di esse, che noi stessi coltiviamo.

Perché mi viene in mente tutto questo? Riflettevo su una puntata dell’oramai storico programma Report che va in onda su RAI 3. Lunedì 11 novembre ha dedicato una puntata proprio al tema dei brevetti, pur non occupandosi specificatamente di uva senza semi. Quella puntata partiva dai casi di colleghi che coltivano anche le cosiddette “mele club”. Pink Lady®, per esempio, certamente la più famosa. Niente altro che il nome commerciale di un varietà di nome Cripps Pink, originaria dell’Australia, ottenuta dopo aver incrociato altre due varietà, cioè Lady Williams e Golden Delicious. Chi l’ha selezionata ha brevettato la varietà, registrato un marchio commerciale e ora chi vuole coltivarla deve pagare delle royalties. Niente di così misterioso o anomalo. Succede, quindi, la stessa cosa anche nel mio mondo.

Successivamente la puntata si è però occupata invece di semi di colza, anch’essi brevettati e registrati con un macchio commerciale, ma ottenuti attraverso modificazione genetica. La prima cosa che ho pensato è stata: ma così c’è il rischio che un normale consumatore possa aver pensato che tutto ciò che è brevettato sia anche modificato geneticamente!

E questo è un vero problema, perché si rischia di confondere le idee, facendo sorgere sospetti inesistenti a consumatori che invece andrebbero guidati, sgombrando il campo da eventuali leggende metropolitane che non hanno motivo di esistere.