In un post di ottobre avevo cominciato a raccontare qualcosa del mondo dell’uva senza semi, consapevole che per molti consumatori, soprattutto italiani, questo vero e proprio universo appare a volte ancora misterioso. Spesso, soprattutto in Italia, quando ci si accosta all’uva da tavola senza semi molti si domandano, infatti, se dietro ci sia qualcosa di “ambiguo”. Se, in poche parole, questo frutto nasca da una manipolazione contro natura attuata dall’uomo. Per sgombrare immediatamente il campo da eventuali dubbi partiamo subito dalla risposta: no. Assolutamente no.
I breeder, vale a dire dei costitutori varietali, dopo anni di studi e ricerche scoprono nuove varietà di uva senza semi incrociando varietà già esistenti. Tutto qua. Gli oramai famigerati OGM non c’entrano nulla. Per ottenere una nuova varietà di uva senza semi i ricercatori non modificano geneticamente alcunché. È invece normale che chi ricerca e trova una nuova varietà di uva senza semi poi possa brevettarla e registrare un marchio. E, quindi, chi vuole coltivare queste varietà può dover pagare delle royalities. Di casi nel mondo dell’uva da tavola senza semi ce ne sono molti e prossimamente vi racconteremo caratteristiche e storia di molte di esse, che noi stessi coltiviamo.
Perché mi viene in mente tutto questo? Riflettevo su una puntata dell’oramai storico programma Report che va in onda su RAI 3. Lunedì 11 novembre ha dedicato una puntata proprio al tema dei brevetti, pur non occupandosi specificatamente di uva senza semi. Quella puntata partiva dai casi di colleghi che coltivano anche le cosiddette “mele club”. Pink Lady®, per esempio, certamente la più famosa. Niente altro che il nome commerciale di un varietà di nome Cripps Pink, originaria dell’Australia, ottenuta dopo aver incrociato altre due varietà, cioè Lady Williams e Golden Delicious. Chi l’ha selezionata ha brevettato la varietà, registrato un marchio commerciale e ora chi vuole coltivarla deve pagare delle royalties. Niente di così misterioso o anomalo. Succede, quindi, la stessa cosa anche nel mio mondo.
Successivamente la puntata si è però occupata invece di semi di colza, anch’essi brevettati e registrati con un macchio commerciale, ma ottenuti attraverso modificazione genetica. La prima cosa che ho pensato è stata: ma così c’è il rischio che un normale consumatore possa aver pensato che tutto ciò che è brevettato sia anche modificato geneticamente!
E questo è un vero problema, perché si rischia di confondere le idee, facendo sorgere sospetti inesistenti a consumatori che invece andrebbero guidati, sgombrando il campo da eventuali leggende metropolitane che non hanno motivo di esistere.